
Emilio Scossa-Baggi, ex capo della Polizia Scientifica ticinese, ospite di Tio Talk. Con lui si parla anche di True Crime e di episodi davvero macabri.
SAVOSA - Tutti pazzi per il True Crime. È uno dei tanti temi affrontati nella nuova puntata di Tio Talk, il vodcast (video podcast) di tio.ch. Ospite in studio Emilio Scossa-Baggi, 70 anni appena compiuti, ex capo della Polizia Scientifica ticinese.
Emilio Scossa-Baggi è appassionato di True Crime?
«Non particolarmente. Per fortuna in pensione ho scoperto che ci sono anche altre cose da fare. Però alcuni podcast o alcune fiction li ho seguiti. L'importante è che siano obiettivi. Non ci deve essere parzialità in una ricostruzione».
Il True Crime evidenzia come a volte il male possa essere davvero ovunque.
«Non mi sorprende. Perché ognuno di noi ha degli aspetti nascosti, delle perversioni, delle pulsioni. La maggior parte della gente sa gestire le proprie emozioni. I disagi emergono tra chi questi lati emotivi umani non li sa tenere a bada e al contrario li lascia degenerare».
Lei ha trascorso 37 anni nella Scientifica. Di cui 33 come capo. E ha visto ben 100 omicidi.
«Sì. Li ho contati prima di andare in pensione. Alcuni li ricordo come particolarmente efferati».
La memoria vola ai primi anni '90, quando ci fu la strage di Rivera. In una sera tale Erminio Criscione uccise ben sei persone.
«Io ero a Poschiavo, in vacanza. Sono rientrato di corsa. I colleghi ovviamente erano già intervenuti sulle scene del crimine. Qualche tempo dopo intervenni direttamente per la constatazione del decesso di Criscione che si impiccò in carcere».
Quando pensa a un episodio come la strage di Rivera che sentimento prova?
«Di impotenza. Eravamo di fronte a una persona che aveva perso il senno, a un uomo che non era riuscito a frenare quegli impulsi di cui parlavo prima».
Poco dopo la metà degli anni '80 lei si è trovato sulla scena di un altro crimine terribile. Nel Bellinzonese. Quando furono ritrovati i poveri resti di un giovane ticinese salito, per un perfido scherzo del destino, sull'auto di Michel Peiry, il più grande serial killer svizzero.
«I resti furono ritrovati in un bosco vicino al fiume. Erano già passati mesi dalla scomparsa del ragazzo. Trovammo solo le ossa. Non c'era ancora la medicina legale del giorno d'oggi, ricordo che con un amico fisioterapista ci siamo poi messi a ricomporre lo scheletro...»
Ma dopo avere visto certe cose lei riusciva a dormire di notte?
«Sì. Ed è stata una delle mie fortune. Quando non riuscivo a dormire era perché pensavo a cosa dovevo fare la mattina dopo per continuare le attività sul campo».
Come gestiva le emozioni altrui su una scena del crimine?
«Io sono pragmatico. Le spiegazioni concrete avevano molto più effetto delle consolazioni. Ad esempio spiegavo come era morta la persona. Se aveva sofferto. E così si riusciva a placare un po' l'angoscia di famigliari e conoscenti».
Si dice che lei sopporti bene gli odori. E non sia mai stato particolarmente schizzinoso.
«Pensate che negli anni '80 mi recai in Verzasca. Dovevamo recuperare un corpo in avanzato stato di decomposizione. Con me c'era anche il mitico Quirino Rossi, attore dialettale e becchino. A un certo punto, nel tentativo di mettere il cadavere in una sacca, la testa si è staccata dal corpo del defunto. E io venni travolto da liquame e vermiciattoli».
A proposito. Molti ricordano il suo addio alla Scientifica. Lei scrisse una poesia in cui decantava il corpo in decomposizione.
«Non l'avevo scritta in quel momento. Era una "ninna nanna" allegorica che avevo preparato quando era nato il mio primo figlio. Io ho sempre cercato di sdrammatizzare nella vita».
Lei ha vissuto anche il delitto di Ponte Capriasca nel 2002. Con una donna incinta che venne uccisa per "vendetta".
«Un atto così crudele, efferato e perverso non lo dimentichi. Un mix di orrori. Ha sicuramente lasciato il segno dentro di me».
Qualche anno fa nel Bellinzonese un uomo uccise la compagna. E la polizia non se ne accorse. Fu lui ad auto costituirsi tempo dopo. Ma allora esiste ancora il delitto perfetto?
«Non dovrebbe esistere. Perché un collegamento tra vittima e autore c'è sempre. Il problema per gli inquirenti è quello di mettere a fuoco questi collegamenti. Non è sempre possibile».
Torniamo al True Crime. Gli svizzeri amano la privacy. Eppure la cronaca nera attira, eccome, anche qui. Non è un po' contraddittorio?
«No. A rivendicare la propria privacy sono le persone che in qualche modo sono coinvolte dal dramma. Per il resto fa parte del sentimento comune volere capire e sapere di più sulle vite degli altri. È la natura umana».